Un documento di Anna Scattigno
Pensando al modo in cui l’esperienza della Scuola Estiva potrebbe essere di contributo alla discussione proposta in questo seminario e ragionandone con alcune delle amiche che hanno condiviso e condividono da anni la responsabilità dell’organizzazione scientifica della Scuola, mi sono convinta insieme a loro che sarebbe ormai tempo di condurre una riflessione approfondita sulle scelte formative che attraverso la Scuola la Società
Italiana delle Storiche è venuta proponendo nel corso di un’esperienza più che ventennale: una storia segnata da continuità e discontinuità, che ha sedimentato memoria (penso ai fascicoli di Agenda, alle tracce di discussione prodotte nel tempo da diverse di noi – una bibliografia minima, se volete, ma interessante e che potrebbe utilmente essere ripresa, penso al libretto uscito in occasione del decennale) ma soprattutto ha prodotto un materiale documentario al quale dovremmo prestare più attenzione, per dire in breve che avremmo gli strumenti necessari ad affrontare in profondità questo tema della formazione, che parte integrante fin dalle origini dell’identità della SIS.
Le cose che dirò hanno invece tutta la provvisorietà della riflessione appena abbozzata e non ancora sottoposta ad un confronto in comune, spero tuttavia che siano di qualche utilità in questo seminario. Ho accennato al libretto prodotto in occasione del decennale della Scuola: là si indicavano come chiavi privilegiate dell’intento di formazione di aggiornamento e divulgazione che la Società si proponeva, l’esperienza e la soggettività femminile, il significato politico e culturale dell’identità sessuale e delle relazioni di genere. Scorrendo i temi delle settimane lungo il corso di dieci anni, direi che alla scuola abbiamo insegnato per tutta la prima parte storia delle donne, assumendo come criterio di trasmissione di conoscenze, per riprendere un’espressione usata nel libretto, non i discorsi sulle donne, ma le pratiche, i luoghi di tensione e le resistenze, «dove le donne sono protagoniste e attrici in primo piano», per riprendere un’espressione di Christiane Klapisch (1988).
1.
Mi pare intanto che vi fosse qui una esplicita presa di distanza da un’immagine della storia come luogo di un’assenza delle donne, e dalla rappresentazione delle donne stesse come ‘vittime silenti’. Non a caso la prima settimana recava come titolo Il valore delle donne e la seconda, dedicata al mondo del lavoro, recava sempre nel titolo l’espressione strategie di vita.
Mi parrebbe da sottolineare questo aspetto, perché persiste tenacemente forse anche nelle insegnanti delle scuole ma certamente nelle aule universitarie una vulgata (di recente ho avuto occasione di ascoltarla da parte di studentesse certo brave nonché generose militanti femministe), che ignorando del tutto i frutti di decenni di lavoro (e questo apre un nodo di non poco conto), ancora immagina la storia delle donne come quella che si propone di restituire voce alle vittime, di dare corpo e visibilità alle escluse, proseguendo insomma una percezione di subalternità che se pure è una costante della storia delle donne non è certo l’unica chiave interpretativa: le donne non appartengono alla storia, sono relegate nella cultura materiale, diceva una studentessa, che immaginava d’altra parte la cultura materiale come estranea al processo storico.
Non era questo il nostro progetto. La nostra convinzione era che la storia delle donne, da legittimare nel campo della ricerca, da introdurre nell’insegnamento, fosse una questione politica, rispondesse a un esercizio di cittadinanza, un progetto educativo che sfidasse le costruzioni normative e costruisse coscienza critica e nuove narrazioni.
Ciò che consentì alla Scuola della SIS di impostare il suo lavoro in modo originale rispetto alle rappresentazioni che ricordavo sopra, era il nesso forte tra ricerca e didattica: dote e proprietà, famiglia, diritti e lavoro, furono fin dalle prime settimane assi portanti del discorso avviato dalla scuola. Con un’attenzione al diritto, e dunque sì un riferimento all’ambito dei discorsi, che è stata costante nella Scuola della SIS ed è proseguita nel passaggio dalla Certosa di Siena al Centro Studi Cisl di Firenze, ma accostando nel diritto e nei diritti la controparte attiva della conflittualità, delle tensioni, della trasgressione e del rovesciamento simbolico.
2.
Mi pare che qui vi sia un punto di riproporre con forza e che, come l’esperienza della Scuola insegna, introduce all’approccio multidisciplinare. Alla scuola nelle prime edizioni (1990-1991) la docenza era tutta di storiche, ma presto il progetto si venne aprendo a un lavoro interdisciplinare, del quale rende testimonianza il libretto del decennale, con la presenza nella docenza di antropologhe, sociologhe, filosofe, letterate. Questo metodo di lavoro è quello che vogliamo proporre con forza a chi insegna storia delle donne nella scuola, e del resto la ricerca promossa dalla SIS nei convegni, nella rivista, e proposta nei congressi, esprime proprio questo intreccio di discipline e competenze diverse.
Tuttavia, per tornare all’esperienza della Scuola, può essere utile avvertire di un rischio che questo approccio comporta, se come è avvenuto in alcuni momenti del nostro progetto formativo, penso agli ultimi anni della Certosa, le opzioni tematiche e gli apporti multidisciplinari non rispondono più a scelte precise; se insomma, al di là dell’interesse che pure hanno e della varietà di sguardi che offrono, non vi si legge più con chiarezza il progetto che ha ispirato le scelte. La soggettività femminile come oggetto di ricerca e di trasmissione, che era nei nostri intenti originari, faceva da ombrello mi pare a un’incertezza di visione che credo abbia segnato gli ultimi tempi di Pontignano.
Ma Intanto anche la configurazione della Scuola vista dalla parte delle allieve andava cambiando e anche di questo occorre tener conto nel riflettere sulla scelta dei temi e della didattica. Senza entrare in dettagli che sono qui di minore interesse, come l’attenzione rivolta per tutto un periodo agli istituti di parità come possibili destinatari della nostra formazione, o ai corsi di perfezionamento post-universitari, se si guarda invece alla storia recente, ci pare che se per un periodo c’è stata attenzione a una didattica di formazione e trasmissione, nelle ultime edizioni prevalga – per nostra scelta e per sollecitazione da parte delle allieve – una didattica pensata in modo più ‘circolare’, per la presenza soprattutto di giovani donne che si pongono come nostre interlocutrici dirette, su un piano che non è più quello della trasmissione, ma piuttosto di una consapevole attenzione reciproca ai punti di vista diversi, alle esperienze differenti che si mettono a confronto dall’una e dall’altra parte nell’esperienza formativa, alla pluralità stessa delle ragazze d’oggi. Abbiamo imparato molto da quelle di loro che sono impegnate nei diversi femminismi contemporanei, ci hanno provocato con profitto, ma abbiamo ricevuto non poche suggestioni anche nelle altre, curiose di conoscere, aperte in modo laico alla discussione e al confronto.
Gli interrogativi sulla didattica che ci siamo poste negli ultimi anni, nel corso di un’importante discussione con le giovani che erano di volta in volta allieve della scuola, sono d’altra parte al cuore del rapporto tra generazioni; se ve ne sarà lo spazio, penso che dovremo tornare su questo nodo, perché credo che sia di interesse anche di chi insegna nella scuola pubblica affrontare nella relazione didattica, prima ancora dei contenuti o insieme ai contenuti, la questione del proprio posizionarsi in questo rapporto.
3.
Ma venendo ai contenuti, nei primi anni la Scuola colmava un vuoto, che poi, con la formalizzazione degli studi di storia delle donne e di genere nelle università, non è più tale. Nella Scuola della SIS è forse questo che ha consentito negli ultimi anni la possibilità di una più libera sperimentazione, verso ambiti di ricerca a carattere decisamente più interdisciplinare, e verso tematiche che appartengono allo spazio della discussione pubblica, dove la Scuola si è proposta con forza come soggetto di interlocuzione. D’altra parte le tematiche non sono cambiate solo perché la nostra disciplina è cambiata (e da ripensare, dopo l’importante riflessione di A che punto è la storia delle donne?) ma anche perché la società è cambiata, ha sollevato nuove questioni e ci ha posto nuove sfide. Lo sguardo internazionale o temi specifici come le migrazioni sono nati anche dal bisogno di dare risposte al repentino cambiamento del nostro paese e della realtà globale in cui si inserisce. Anche l’interdisciplinarietà, che pure sta nel Dna della storia delle donne, si è ulteriormente affermata perché per rispondere alla complessità del presente anche attraverso la storia abbiamo bisogno di poter contare su una molteplicità di sguardi e di approcci.
Nella scuola al Centro Studi abbiamo preso dunque un’altra strada rispetto agli inizi e abbiamo fatto scelte. L’indicazione di lungo periodo che era nella nostra impostazione iniziale c’è ancora, ma non rigida, dipende dai temi, e i temi invece sono tornati ad essere oggetto di scelta precisa. Qui la storia si confronta davvero con altre discipline, non tutte, in certi temi cede anche il passo quando non ha ricerca sufficiente. Il diritto è ancora un referente fondamentale, abbiamo lavorato con le economiste, con le antropologhe e antropologi, che sembrano più interessanti per noi della sociologia che pure non possiamo ignorare. Se avessimo fondi a sufficienza, faremmo decisamente ricorso a studiose/i di altri paesi, cerchiamo di dare comunque uno sguardo non eurocentrico .
4.
Infine, il femminismo: abbiamo inaugurato la nuova sede della Scuola a Firenze con un’edizione sul femminismo. È un tema, tra femminismi storici e nuovi femminismi, a cui la SIS e la rivista vanno dedicando un’attenzione crescente. Non crediamo si possa insegnare storia delle donne, in particolare come si va spesso facendo nelle scuole secondo l’angolatura della storia dei diritti delle donne, senza insegnare il femminismo. Non è una disciplina neutra, la storia delle donne. In un periodo in cui con forza sta tornando attorno proprio attorno al femminismo lo stereotipo negativo che ben conosciamo, bisogna con decisione insegnarlo nelle scuole. Disconoscere questo patrimonio di pensiero e di pratiche, non autorizzarci a trasmetterne la conoscenza, sarebbe una deprivazione di senso della stessa storia dei diritti che andiamo ripetendo ogni volta che ne è data occasione.