Che genere di cultura, che genere di scuola? di Liviana Gazzetta (Società Italiana delle Storiche)
Un bel contrasto, non c’è che dire, quello che emerge in questi giorni tra la notizia di ciò che va facendo in Francia Najat Vallaud-Belkacem, ministra per i diritti delle donne, e le notizie su ciò che in Italia è stato previsto dalle disposizioni ministeriali in materia di concorsi a cattedre, da poco banditi dopo lunga attesa: mentre la ministra francese sta proponendo ai membri del governo nazionale di frequentare un “atelier di sensibilizzazione” sulle disuguaglianze ancora esistenti fra donne e uomini, da noi il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Francesco Profumo (insieme alla ministra con delega alle Pari Opportunità, Elsa Fornero) è responsabile di una vera e propria cancellazione della cultura di genere proprio negli stessi programmi concorsuali, come denuncia l’appello Che genere di concorso? diffuso su vari siti on line.
Promossa dal Laboratorio di studi femministi «Anna Rita Simeone» dell’Università La Sapienza di Roma, la lettera aperta è stata sottoscritta anche dalla Società Italiana delle Storiche, assieme alla Società delle letterate e delle Italianiste e a molte importanti studiose e scrittrici (si veda l’articolo di Simonetta Fiori Dimenticate le donne, “Repubblica”, 16 ottobre). La critica nello specifico è rivolta al decreto n. 82 del 24 settembre 2012, relativo al concorso nazionale a cattedre indetto da poco, dove manca completamente ogni riferimento ai gender studies come prospettiva critica e scientifica: <<Basta scorrere gli elenchi di autori che il candidato dovrebbe innanzitutto conoscere: tra i filosofi, nemmeno una donna; tra gli scrittori, una sola, Elsa Morante; nel programma di storia non c’è alcun accenno alla storia delle donne e alle questioni di genere; tra i fatti notevoli del Novecento non è menzionato il femminismo. Quando si parla di educazione linguistica non c’è nessun riferimento al linguaggio sessuato>>
Giustamente, però, la lettera non ignora il più generale contesto politico-culturale in cui si collocano tali disposizioni. Su questo terreno, infatti, la politica del Ministro attuale si può considerare in linea con ciò che da alcuni anni sta accadendo sul versante della cultura di genere all’interno della scuola italiana. Basti ricordare che nelle Indicazioni Nazionali della scuola secondaria del 2010, che ridisegnano i contenuti scolastici secondo la riforma Gelmini, la questione della relazione tra uomini e donne è del tutto rimossa, mentre se si analizzano in dettaglio le scelte per le singole discipline si potranno individuare anche macroscopiche retromarce, come quella che deriva, per esempio, dalla scelta di privilegiare l’asse politico-istituzionale nell’ambito dell’insegnamento della storia. E ciò mentre, per converso, con la nota strategia degli annunci, nel giugno del 2011 la ministra Carfagna programmava un piano nazionale “Pari opportunità e istruzione” che avrebbe dovuto sollecitare tutti gli istituti scolastici italiani, ad ogni livello, a promuovere corsi di formazione per personale docente e per studenti, facendo centro in particolare sull’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione. Inutile dire che di tale piano non dovevano essere tracciate neppure le linee basilari, se nessun insegnante di nessuna scuola del paese ne ha mai saputo qualcosa di più della nuda notizia.
Si potrà forse pensare che l’arretratezza dei programmi ministeriali in materia di cultura di genere, in molti paesi europei ormai considerata come punto di partenza per la pianificazione pedagogica e didattica, sia il riflesso di una più complessiva arretratezza italiana della ricerca e dell’elaborazione in ordine alla sessuazione del sapere. Ma non è affatto così.
E non solo perché la ricchezza della produzione in questo campo in Italia potrebbe facilmente smentirlo, ma soprattutto perché è facilmente dimostrabile che, al contrario, nei decenni alle nostre spalle anche nel nostro paese avevano trovato spazio importanti esperienze che, al posto della politica narcisistica dell’annuncio, avevano privilegiato quella del coinvolgimento diretto degli insegnanti e della sedimentazione, come nel caso del progetto Po.Li.Te, pari opportunità nei libri di testo.
Con la memoria lunga che deriva dalla prospettiva storica, ci piace anzi ricordare che fin dal primo Congresso nazionale delle donne italiane, nell’aprile del 1908, vi fu chi –come la maestra socialista Anita Dobelli- richiese la revisione della formazione femminile e, ancor più, l’insegnamento obbligatorio di una materia come <<storia sociale della donna>>.
Apparso sul “Manifesto” del 15 novembre 2012