Premio Franca Pieroni Bortolotti 2013. XIX edizione

Pubblicato il 10 Maggio 2013

Premio Franca Pieroni Bortolotti 2013

Pubblichiamo gli interventi della Commissione del Premio, delle vincitrici del primo e del secondo premio – Cinzia Bonato e Chiara Bonfiglioli – e di Margherita Pelaja, responsabile della collana della casa editrice Biblink che pubblica le opere prescelte.

Relazione della Commissione Esaminatrice

(Serena Ferente, Daniela Lombardi, Alessandra Pescarolo, Elisabetta Vezzosi)

Le tesi candidate a questa edizione del Premio Franca Pieroni Bortolotti erano 38: 13 tesi di dottorato e le restanti tesi di Laurea Magistrale; il numero di partecipanti è un po’ minore rispetto all’anno scorso, ma l’anno scorso il premio ritornava dopo un lungo periodo di sospensione. Le tesi provengono da un ventaglio abbastanza ampio di università italiane, compresi alcuni atenei del sud Italia, ma anche, in due casi, da università europee (Utrecht e Reading) – un dato, quest’ultimo, che riflette il numero crescente di dottorandi italiani in università estere, un fenomeno non nuovo ma accentuatosi molto negli ultimi anni.

 

La qualità media dei lavori considerati dalla commissione è molto buona, e rispetto all’anno scorso, le tesi di dottorato, in particolare, sono parse di livello più alto. L’elenco dei lavori vincitori, che comprende soltanto una tesi di laurea magistrale, rispecchia infatti, come forse ci si deve aspettare, la maggiore maturità storiografica e dimestichezza con le fonti che contraddistinguono la ricerca dottorale. Rimane vero, tuttavia, che alcune tesi di laurea magistrale, anche quando sono paragonate a tesi di dottorato, rivelano non soltanto intelligenza e creatività storica, ma talvolta notevole profondità e serietà della ricerca – questo è forse ancora un tratto caratterizzante delle tesi di laurea italiane, rispetto alle dissertazioni equivalenti prodotte nei corsi di laurea esteri.

Una seconda tendenza che è emersa quest’anno, e che la commissione si augura continui, è il ritorno della storia medievale: sei delle 38 tesi erano di argomento medievale, perlopiù tardomedievale, e i temi andavano dalle biografie di donne potenti ma poco studiate come le contesse Adelaide di Torino e Beatrice del Tirolo, a temi come le forme della proprietà femminile nella Sicilia tardomedievale o l’alfabetizzazione femminile a Firenze studiata da Raffaella Damiani attraverso lo straordinario Catasto del 1427. Proprio da queste tesi, tuttavia, sembra evincersi che in Italia i metodi e i risultati della storia delle donne e del genere sono stati meno profondamente assorbiti nel campo della storia medievale rispetto a quella moderna e contemporanea – in Francia o in Inghilterra, invece, proprio i medievisti sono stati fra i pionieri della storia delle donne e al genere ben prima degli anni ’70 del Novecento.

Fra i temi che più generalmente emergono dal complesso delle tesi presentate, la storia del femminismo continua a costituire il polo d’attrazione più importante: Serena Ruffato con un bel lavoro sull’Unione Donne Italiane a Padova, Silvia Bertacca sulla ‘questione femminile’ nel dibattito costituente in Italia, Lorenza Perini sul dibattito attorno alla legge 194, Carmen Di Vito sui gruppi per la salute della donna negli anni ’70, Marcella Bresciani sulla controinformazione femminista nella rivista Effe, Valeria Mercandino sulle pratiche di autocoscienza, Laura Scarmoncin su storiografia e genere in Italia – e altre ancora: sono almeno dieci le tesi che toccano aspetti centrali della storia politica e culturale del movimento femminista, soprattutto, ma non solo, in Italia.

La bellissima tesi di Chiara Bonfiglioli sui network politici che unirono e divisero le donne italiane e jugoslave nei primi anni della guerra fredda, a cui la commissione ha attribuito il secondo premio, non è l’unica a concentrarsi sulla partecipazione delle donne ai partiti e ai movimenti politici: dal Risorgimento alla Lega Nord, sono in buon numero i lavori in questo campo. Non sono mancate ricerche sulla storia di aree non europee (con una prevalenza della storia degli Stati Uniti), e anche di storia globale, come il bel lavoro di Sara Ercolani sulle reti transnazionali della “tratta delle bianche”. Tuttavia l’altro filone che emerge distintamente tra le tesi presentate quest’anno, e che comprende lavori eccellenti, è la storia delle istituzioni ospedaliere e psichiatriche, che in tutti i casi ha spinto le autrici a fare delle differenze di genere uno dei punti focali della loro analisi. La vincitrice del primo premio quest’anno, Cinzia Bonato, ha lavorato sull’archivio dell’Ospedale di Pammatone a Genova nel XVIII secolo, ricostruendo con grande acutezza e originalità la natura sfaccettata e ‘totale’ di una grande istituzione assistenziale d’antico regime, attraverso un sapiente mix di analisi statistica e storie individuali, di pazienti uomini e donne, che vivevano l’ospedale e quasi se ne appropriavano. Anche Martina Starnini, la cui tesi è premiata con la pubblicazione, e Stefania Re si sono occupate di ospedali, ma in particolare di ospedali psichiatrici, facendo un uso intelligente e rivelatore dei voluminosi dossier conservati da quelle istituzioni per capire le relazioni tra genere e “follia”, rappresentata o subita.

Se l’anno scorso la commissione ha messo l’accento sull’uso di fonti orali (che, quest’anno, erano la base di uno studio molto interessante, quello di Teresa Bagni sul lavoro femminile a domicilio nell’area di Bagno a Ripoli), in questa edizione molte delle tesi hanno fatto ricorso, in alcuni casi con risultati appassionanti, alle corrispondenze. Che si tratti delle ricchissime corrispondenze diplomatiche quattrocentesche tra Milano sforzesca e Napoli aragonese, utilizzate con raffinatezza da Maria Grazia Sauchelli, o di corrispondenze private e familiari, come quelle della famiglia Giulio nell’Ottocento torinese le cui vicende Elisa Tonda ha ricostruito con una scrittura di rara eleganza e vivacità, o infine di corrispondenze di lavoratrici e attiviste italiane emigrate in Francia negli anni ’20 e ‘30, che Sara Rossetti ha saputo intrecciare benissimo a fonti di tutt’altra natura, le corrispondenze si confermano come un punto di partenza privilegiato per chi voglia indagare l’esperienza di vita e la soggettività femminile nella storia.

Nel complesso la storia sociale ancora una volta domina il panorama dei lavori letti dalla commissione, anche più della storia politica: è una storia sociale, però, che sa comprendere al suo interno aspetti politici, economici e culturali. L’ammirevole tesi di Agnese Maria Cuccia, premiata con la pubblicazione, si occupa di doti nella Torino del Settecento ma estende la propria analisi alla storia dell’economia familiare, per così dire, e dei cicli di vita maschili e femminili, studiando come le coppie e le famiglie si rapportassero allo stato e mettessero a punto strategie per superare i momenti di crisi e far quadrare i conti. Ed è storia sociale anche quella che ha scritto Valentina Ciciliot, sulle canonizzazioni di donne volute da Giovanni Paolo II: anche nel suo caso la storia sociale diventa anche una storia del pontificato di Wojtyla, dei modelli della devozione cattolica, della santità, spingendo nell’età contemporanea linee di ricerca molto utilizzate per il medioevo e l’età moderna.

In questa occasione la Società Italiana delle Storiche e la Regione Toscana presentano il primo volume della Collana del Premio Franca Pieroni Bortolotti; i lavori premiati con la pubblicazione quest’anno andranno ad aggiungersi alla collana, che ci auguriamo continui a diffondere il meglio della nuova ricerca sulla storia delle donne del genere. Come già l’anno scorso, inoltre, la Società offrirà una guida e un’interlocutrice alle autrici di lavori particolarmente meritevoli e promettenti.

Serena Ferente

Cinzia Bonato

Primo premio: Molto più che pazienti. L’ospedale di Pammatone e la popolazione della Repubblica di Genova nel XVIII secolo, tesi di dottorato, Università di Torino

Vorrei prima di tutto ringraziare la giuria, che mi ha assegnato questo premio; la Società delle Storiche, che l’ha istituito nel lontano 1990 e in seguito ha lottato per riuscire a mantenerlo; il Consiglio Regionale, per averlo sostenuto nonostante le difficoltà: in simili tempi e in tali ristrettezze non è così scontata l’attenzione verso la cultura, e ancor più verso la storia. Vorrei poi esternare la mia gratitudine verso il mio tutor, che è anche mio maestro, il Professor Luciano Allegra, grazie al quale ho compreso quanto sia importante riuscire a guardare le cose con occhi sempre diversi e da diverse prospettive, senza adagiarsi su schemi precostituiti e senza abbandonarsi alle false sicurezze che danno le posizioni consolidate.

E difatti, una cosa mi riempie d’orgoglio: associare il titolo della mia tesi al nome di Franca Pieroni Bortolotti – un’innovatrice, una donna che, non paga della sua già importante attività politica e sociale, ha anche inaugurato un nuovo terreno di ricerca, e l’ha fatto in un paese, l’Italia, tradizionalmente schivo verso la novità e il rinnovamento. Quando le riviste accusano il nostro Stato di non essere un “paese per scienziati”, com’è stato fatto in un recente articolo che qualche giorno fa è stato riportato da Repubblica, non ci colgono di certo impreparati: noi italiani lo sappiamo, e lo sanno ancora meglio quelle generazioni che si sono destreggiate tra le difficoltà dell’università e l’impervio percorso che porta al dottorato, per poi affacciarsi sul mondo del lavoro e scoprire un panorama alquanto arido. A molti non rimane che chiudere le ante di quella finestra e cercare altri pertugi, maggiormente praticabili, provocando così una perdita sia per l’università che per il nostro paese.

Nell’attuale situazione, questo premio assume, dunque, un’importanza ancor maggiore, perché costituisce non solo un importante riconoscimento del valore del lavoro svolto nell’attività di ricerca, ma anche uno stimolo verso un maggiore coinvolgimento in essa e, all’atto pratico, un aiuto che si aggiunge alle risorse che un precario dell’università (ormai così ci chiamano) riesce a racimolare per sopravvivere.

Ed è ugualmente molto importante l’impegno che, con questo premio, si profonde nel tener vivo il ricordo di persone che hanno aperto nuove strade di ricerca, nuove attitudini e nuove prospettive. In esse ho trovato ispirazione quando, posta di fronte alla copiosa e, per molti versi, colorita documentazione che avevo raccolto su Pammatone, l’ospedale genovese, mi sono chiesta come analizzare i dati che da essa avevo ricavato. Nel mio piccolo, perseguendo l’intento di comprendere e svelare gli intricati legami tra la popolazione e il nosocomio, ho cercato una strada utile e, per certi versi, nuova, anche se ben lontana dall’essere rinnovatrice. Utilizzando metodologie consolidate quali l’analisi qualitativa, quella quantitativa, l’analisi di rete e quella comparativa, ho cercato di non realizzare una semplice raccolta di dati seriali, ho cercato di non affidarmi al fascino della documentazione, ma ho rintracciato un filo conduttore che mi permettesse di ricostruire gli ambienti in cui erano immerse le persone che usufruirono dei servizi di Pammatone e, soprattutto, che si rifecero alla sua attività giuridica. Perché se la storia è l’arte del contesto, come affermò Edward Thompson in un noto articolo, allora sono proprio le caratteristiche dei contesti che s’individuano attorno a un problema a poterci in qualche modo illuminare.

È facile indovinare come essi, nel caso che ho trattato, fossero affollati di presenze femminili, di donne del Settecento che, alle prese col sempiterno problema del parto, per di più illegittimo, trovarono per quasi mezzo secolo un valido appoggio nella magistratura ospedaliera. Parlare di assistenza vuol dire, infatti, parlare di donne; spesso ha voluto dire parlare di donne in posizioni marginali rispetto alla società. Questa volta, però, le numerose partorienti che si rivolsero a Pammatone erano dotate di una forte identità lavorativa, la stessa che condizionò anche le modalità di avvicinamento all’istituzione loro e di tutti gli assistiti. Per questo, nella tesi, ho proceduto ricostruendo i contesti in cui vivevano le persone appartenenti non a singole professioni, ma a diversi settori produttivi, scoprendo vari tipi di reti, di relazioni, di spazi che condizionarono in modo rilevante l’opportunità di rivolgersi ai servizi ospedalieri e la modalità con cui lo si fece.

Non è stato semplice, perché la storia sociale, ancor più se i suoi metodi sono applicati alla storia di genere, come in questo caso, ha tempi di elaborazione molto lunghi, ormai incompatibili con i criteri aziendali che si stanno prepotentemente affermando anche in ambito universitario. Schedare ogni persona che s’incontra nei vari documenti, raccogliere di essa ogni minimo dettaglio, elaborare i dati raccolti secondo criteri differenti è un lavoro lungo e laborioso. Quando deve sottostare ai tempi dettati dall’accademia assorbe ogni minuto dello studioso, ogni momento, e diventa impegno totale. La mancanza del tempo necessario a condurre una buona ricerca e delle risorse indispensabili per sostenere il ricercatore sono problemi gravi sia per il singolo, il ricercatore che vuol praticare storia sociale e storia di genere, sia per i due insegnamenti, perché rischiano di accentuare ancor di più la posizione marginale in cui essi sono stati messi, se non di farli scomparire derubricandoli ad arte praticabile solo da un’élite.

Mi pare, dunque, che la storia sociale e la storia di genere stiano entrambe vivendo la stessa problematica accademica, ovvero la tendenza ad essere marginalizzate, quando non tagliate, dai corsi ufficiali, per problemi di costi e di risorse. Il settore innovativo di ricerca che Franca Pieroni Bortolotti aveva individuato e praticato, e che ora continua a promuovere tramite il suo nome, attraverso questo premio, invece di progredire verso nuove mete e diffondersi non solo nell’ambito universitario, ma anche nelle scuole, rischia di retrocedere fino alla posizione di partenza, senza tuttavia avere attorno a sé quel contesto carico di prospettive e di coraggio che era presente negli anni ’60 e ’70 del Novecento – condizione, quest’ultima, che potrebbe essere davvero determinante per il suo destino.

Pensiamoci, come ricercatori; pensiamoci, come politici; ma soprattutto pensiamoci come cittadini che hanno e devono avere come obiettivo il miglioramento della società che li circonda tramite non solo la produzione e la diffusione del sapere, ma anche la capacità di rinnovare e di promuovere il rinnovamento.

Con quest’esortazione concludo il mio discorso. Grazie, dunque, a chi sostiene la storia di genere e grazie, infine, a tutti voi per avermi ascoltato.

Chiara Bonfiglioli

Secondo premio: Revolutionary Network, Women’s Political and Social Activism in Cold War Italy and Yugoslavia (1945 – 1957), tesi di dottorato, Università di Utrecht

Ringrazio di cuore la commissione esaminatrice del premio Franca Pieroni Bortolotti, la Società Italiana delle Storiche e il Consiglio Regionale della Toscana per questo premio e per questo invito. Ringrazio anche la mia direttrice di tesi, la professoressa Rosi Braidotti, con cui ho lavorato all’università di Utrecht. È un onore per me essere qui oggi con voi, e ricevere un premio intitolato a una storica cosi importante per la storia delle donne e del femminismo, una studiosa che è stata una grande fonte di ispirazione durante la scrittura della mia tesi di dottorato.

Anche se Franca Pieroni Bortolotti è conosciuta in primo luogo per i suoi lavori sull’Ottocento e sui primi del Novecento, un’importante fonte di riflessione è stata per me la sua introduzione al volume Le donne della Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia Romagna: 1943-1945, pubblicato nel 1978. In questa introduzione Pieroni Bortolotti ci invita, per citare Luisa Passerini, a restituire soggettività alla generazione dell’antifascismo, attraverso le voci di diverse donne che hanno preso parte alla Resistenza.

In primo luogo la storica ci invita a prestare attenzione alle diverse ragioni soggettive che hanno portato migliaia di donne a compiere una precisa scelta politica. Viene criticata esplicitamente l’immagine patriarcale e pacificata della donna nella Resistenza che era stata promossa anche dalla storiografia di sinistra. Scrive Pieroni Bortolotti: “I motivi per cui una donna sceglie una determinata parte politica non sono affatto uguali o riducibili a quelli per cui un’altra donna compie la stessa scelta. L’immagine della donna ‘madre e sposa’, nella Resistenza, è l’immagine polemica, ideologizzante, che nasce dalla proiezione della realtà fascista sul mondo avversario del fascismo. Nasce dalla concezione della donna come persona incapace di scelte personali.”

E ancora, in una magistrale descrizione della presa di coscienza rappresentata dalla Resistenza, scrive Pieroni Bortolotti: “Le donne imparano che le domande giuste sono quelle difficili, che le risposte sono state sbagliate perché tra le classi, tra le religioni, tra i sessi c’era sempre stato chi poteva parlare, e chi era stato costretto al silenzio. La coscienza del pluralismo sul piano psicologico, non sempre su quello teorico, nasce in Italia in questo momento a livello di massa perché è stato a livello di massa – e le ragioni di ciascuno sono state uguali, e diverse, da quelle degli altri – che libertà e necessità si sono identificate.”

Nella mia tesi di dottorato ho voluto raccontare alcuni momenti vissuti dalla generazione dell’antifascismo, e il modo in cui la scelta politica antifascista ha rappresentato un punto fondante per molte donne, che hanno poi continuato ad essere attive politicamente dopo il 1945, tramite organizzazioni quali l’Unione Donne Italiane in Italia, il Fronte Antifascista delle Donne in Jugoslavia e l’Unione Donne Antifasciste Italo-Slovene a Trieste. Ho voluto raccontare i movimenti femminili di questo periodo tra Italia, Jugoslavia e Trieste proprio perché l’attivismo politico di queste organizzazioni femminili è situato nel quadro dell’internazionalismo di sinistra, e va aldilà delle frontiere nazionali.

Nella tesi descrivo non soltanto le relazioni bilaterali e multilaterali tra Italia, Jugoslavia e Territorio Libero di Trieste, ma anche la diversa posizione delle donne italiane, jugoslave e triestine all’interno della Federazione Democratica Internazionale delle Donne, fondata a Parigi nel 1945. La tesi si basa su un’ampia ricerca d’archivio in Italia e nei paesi dell’ex Jugoslavia. Altre fonti, quali interviste di storia orale ed autobiografie, rappresentano un fondamentale complemento alla ricerca archivistica. Estratti da documenti d’archivio e brani tratti da interviste di storia orale e da autobiografie in italiano, serbo-croato e francese sono stati tradotti e inclusi in un unico racconto storico, volto a dimostrare le interconnessioni e gli scambi tra Italia e Jugoslavia realizzati dall’attivismo femminile comunista e socialista.

L’obiettivo principale della mia tesi è stato quello di dimostrare la vitalità e la complessità dell’attivismo femminile manifestatosi nel periodo della guerra fredda. La guerra fredda è stata generalmente rappresentata come un momento di stasi per quanto riguarda l’attivismo femminile, a differenza della seconda guerra mondiale. Nella mia tesi cerco di mostrare invece la continuità tra Resistenza, dopoguerra e guerra fredda, mostrando come molte ex partigiane diventarono leader politiche di organizzazioni femminili legate ai partiti comunisti e socialisti. La tesi analizza le politiche di emancipazione femminile portate avanti da queste organizzazioni a livello nazionale e locale, ed in particolare la relazione tra dirigenti e “masse femminili”. Al tempo stesso, la ricerca si sofferma sulle prese di posizione di queste organizzazioni relativamente agli scontri geopolitici transnazionali di questi anni, in primo luogo lo scontro politico tra comunismo e anti-comunismo, ma anche quello tra Stalinismo e ‘Titoismo’ dopo il 1948, o la contesa su Trieste e sulla definizione della frontiera italo-jugoslava.

In questo mio lavoro ho sottolineato i limiti del “centralismo democratico” di questi anni, e la limitata autonomia delle organizzazioni femminili del dopoguerra rispetto a partiti politici e istituzioni. Al tempo stesso, ho cercato di ricostruire lo specifico contesto della guerra fredda e le particolari condizioni storiche e geopolitiche di quel periodo, al fine di restituire soggettività a questi movimenti e comprenderli nell’universo di senso in cui sono nati. Nel caso dell’Italia, l’attivismo femminile del dopoguerra e della guerra fredda è stato spesso valutato sulla base di categorie teoriche e politiche nate con il femminismo, e quindi è stato spesso descritto come arretrato o limitato rispetto ad elaborazioni teoriche e politiche successive. Nella mia tesi, ho cercato invece di sospendere il giudizio sull’autonomia di queste organizzazioni e di mostrarne l’importanza nel contesto di quegli anni. Ad esempio, ho analizzato le politiche di welfare e di tutela delle lavoratrici portate avanti dall’UDI, o le iniziative di alfabetizzazione e di educazione alla salute attuate dal Fronte antifascista delle donne jugoslave nelle campagne.

In questa ricerca ho voluto seguire le suggestioni di Franca Pieroni Bortolotti, che, sempre nell’introduzione al volume sulla Resistenza in Emilia Romagna metteva in guardia sul rischio di dare un giudizio troppo severo, e anacronistico, sui movimenti delle donne precedenti al femminismo. Scriveva infatti nel 1978: “Se si pensa a quello che fra trent’anni si potrà scrivere sulle lotte del nostro tempo, secondo questa stessa ottica, si diventa indulgenti con il passato. Dopo tutto, le carenze di allora indicano il valore della svolta operata, e quella svolta segna l’inizio di un nuovo tipo di battaglie.” Per questo ho cercato di situare le scelte soggettive della generazione dell’antifascismo e della guerra fredda nel contesto storico e geopolitico in cui sono state espresse, a dimostrazione che i movimenti di donne di questo periodo meritano di entrare a far parte a pieno titolo della storia dei femminismi.

Margherita Pelaja, Casa Editrice Biblink

Una nuova collana editoriale: significato e ambizioni

Presentiamo e festeggiamo oggi il primo volume della nuova versione della Collana editoriale che affianca il Premio Franca Pieroni Bortolotti. Una versione che prevede la pubblicazione delle opere prescelte in due forme: quella ‘tradizionale’ del libro stampato e rilegato, e quella digitale, resa disponibile in open access sul sito della SIS.

Questo primo volume – cui seguirà tra pochissimo il lavoro di Chiara Pavone sulle donne nella Repubblica romana del 1798 – è la bella ricerca di Marta Seravalli su Arte e femminismo a Roma negli anni Settanta. Una ricerca brillante e documentatissima, che ricostruisce lo spazio occupato dall’arte nella vicenda del neo-femminismo italiano in una decisa prospettiva di comparazione internazionale e con una vivacità tale che spesso, leggendola, mi sono chiesta “ma davvero facevamo queste cose?, davvero eravamo così?”. Non posso parlare più a fondo del libro perché non ne ho le competenze, ma di certo avremo l’occasione di farlo nelle presentazioni che organizzeremo con il dovuto rilievo nelle varie città. Seguirà poi la pubblicazione degli studi prescelti nella giornata di oggi e poi ancora quelli degli anni a venire, con un ritmo appunto di due volumi l’anno.

Solo poche parole dunque per illustrare le caratteristiche della Collana. In primo luogo vanno sottolineate le caratteristiche della formula editoriale. Sappiamo che i libri – tutti i libri, ma soprattutto i saggi di ricerca – hanno una vita propria: nascono e si affermano subito nella comunità di riferimento, o magari muovono i primi passi più lentamente, per affermarsi poi nel tempo, con lo sviluppo di altri studi e con un’ampia rete di citazioni. La formula del print on demand, che elimina il problema della tiratura iniziale per stampare di volta in volta le copie richieste di ciascun titolo, affiancata alla disponibilità della versione digitale, è quella che Biblink adotta fin dalla sua nascita e che risponde meglio all’esigenza di accompagnare i libri nel loro cammino senza rischi di esaurimento e quindi di garantire che non finiscano mai nel triste limbo del ‘fuori catalogo’.

Poi, ma è la cosa più importante, le caratteristiche della politica culturale. Sappiamo che le donne sono collocate per lo più alla base – una larga base – della piramide universitaria, e che dunque con maggiori difficoltà hanno accesso a fondi di ricerca peraltro sempre più esigui quando non del tutto inesistenti. Sappiamo anche che purtroppo ancora oggi – come è documentato anche con il censimento pubblicato proprio sul sito della Società delle Storiche – gli studi di genere non costituiscono un patrimonio scientifico capace di garantire al pari di tutti gli altri oggetti di ricerca la carriera accademica o comunque l’avanzamento in un’altra collocazione professionale; così molte studiose tendono ad affiancare gli studi di genere ad altri percorsi scientifici, più in grado di accreditarle nella comunità professionale di riferimento.

È per questo che questi studi e queste ricerche vanno sostenuti, da parte di istituzioni pubbliche, istituti culturali e case editrici, con una politica che sia non soltanto capace di recepire ed accogliere le opere compiute, ma che voglia anche progettare, stimolare le studiose più giovani a lavorare nonostante tutto in questo ambito, aggregare entusiasmi e risorse intorno a un’ipotesi editoriale in grado di fornire contesti adeguati alla loro importanza. Non si tratta però soltanto di coltivare un atteggiamento per così dire ‘assistenziale’. Perché il senso e l’ambizione di questa collana sono quelli di stimolare il confronto e la trasmissione tra diverse generazioni di storiche e storici.

Va molto di moda da qualche anno discutere del rapporto tra le generazioni da un punto di vista a mio parere ambiguo e distorto: da un lato si guarda ai ‘giovani’ come se fossero portatori di per sé di un valore assoluto – la giovinezza appunto – che andrebbe in quanto tale promossa ed esaltata; dall’altro proprio chi si fa sostenitore del ‘largo ai giovani’ ed è in età pensionabile sembra spesso sbandierare un proclama pur di preservare un protagonismo cui la mia generazione non riesce proprio a rinunciare.

Ecco, direi allora in estrema sintesi che lo scopo di questa Collana editoriale è quello del confronto e della reciprocità: non solo aiutare le giovani e i giovani a farsi conoscere ma anche conoscerli, sapere quali sono le loro curiosità intellettuali, di che cosa sono fatti i loro sguardi e le loro scelte di ricerca, quali tematiche considerino oggi più rilevanti e in quali orizzonti teorici intendano collocarle. In definitiva, che cosa di una ingombrante eredità culturale e ideologica intendano raccogliere e sviluppare, a quali flussi di conoscenza daranno vita. Sono convinta che tra qualche tempo proprio i titoli di questa collana ci aiuteranno a costruire una mappa in cui ogni esperienza troverà finalmente il proprio posto.

Ma ora, in conclusione e a proposito di protagonismo, permettetemi qualche parola ancora più personale. Vorrei ringraziare il Consiglio Regionale della Toscana e la Società Italiane delle Storiche per aver scelto Biblink, la casa editrice che ho fondato e che dirigo, come partner per la nuova versione della Collana editoriale che affianca il Premio. Dirò subito che sono orgogliosa di questa scelta ma dirò anche – e perdonatemi la mancanza di modestia – che la ritengo una scelta felice, davvero in sintonia con la vocazione del Premio.

La politica editoriale e il profilo culturale di Biblink costituiscono infatti una sorta di sviluppo naturale del mio percorso intellettuale e professionale: dovete perdonarmi a questo punto i riferimenti biografici, perché credo che siano proprio questi a caratterizzare anche Biblink. Alcune di voi sanno già che – in termini puramente cronologici – sono prima autrice (storica, ricercatrice), e prima ancora impegnata nei movimenti delle donne, e poi editore. Così tutto il mio percorso biografico, intellettuale e politico – la battaglia per i diritti e la dignità delle donne, la passione della ricerca e della conoscenza, la passione per il testo e la scrittura, l’amore per i libri – tutto il mio percorso ha trovato una specie di sintesi nella casa editrice che rappresento e nelle sue scelte editoriali.

Voglio ringraziare quindi tutta una rete di donne della mia generazione che hanno lavorato e discusso con me – nella fondazione e nella produzione di Memoria, la prima rivista italiana di storia delle donne, nella fondazione della Società Italiana delle Storiche – e che mi hanno accompagnato negli anni, sostenendo con la loro fiducia e la loro stima anche Biblink, l’ultima mia impresa culturale. Senza il loro stimolo, le loro critiche e il loro affetto non sarei stata capace di affrontare e sostenere le enormi difficoltà in cui si muove oggi la piccola editoria indipendente.

Ringrazio anche le giovani studiose, le protagoniste di questa Collana, il cui entusiasmo e la cui bravura danno senso al lavoro di tanti decenni.