150° anniversario dell’Unità d’Italia. “… se non siam uni” – Le grandi questioni nazionali – Firenze, novembre- maggio 2011

150SIS

Pubblicato il 31 Marzo 2011

seNonSiamUNI…se non siam uni
Liberi non sarem se non siam uni (A. Manzoni, Proclama di Rimini)
Le grandi questioni nazionali
Lezioni a due voci sui 150 anni dell’Unità d’Italia
a cura di Pier Luigi Ballini e Elisabetta Vezzosi

Evento organizzato dal Consiglio regionale della Toscana in collaborazione con la Società Italiana delle Storiche.

Primo ciclo

Le grandi questioni nazionali. Identità e Nazione, Ricchezza e Povertà, Chiesa e Laicità, Democrazia e Legalità, Stato e Partecipazione. E – nel secondo ciclo di lezioni, in autunno: Unità e Regionalismo, Famiglia e Società, Emigrazione e Immigrazione, Cultura e Istruzione…
Coppie di concetti solo in apparenza astratti, e invece decisivi per la vita di tutti i giorni. Concetti spesso strettamente collegati uno all’altro, altre volte complementari, facce di una stessa medaglia; altre volte ancora, invece, difficili da far coesistere e da armonizzare. Talvolta, addirittura conflittuali. Eppure destinati ad una necessaria coesistenza e armonizzazione. Per fare finalmente dell’Italia, a 150 anni dall’Unità, un Paese compiuto. Un Paese “uno” e libero, secondo gli auspici manzoniani. Su questi temi alti e cruciali che ancora informano, o meglio: dovrebbero informare il dibattito politico, una serie di “lezioni a due voci”, promosse dal Consiglio Regionale della Toscana, che vedranno in campo studiosi ed esperti fra i più prestigiosi e qualificati in Italia: storici, sociologi, giuristi, politologi, magistrati, economisti. Uomini e Donne – perchè anche questo è, fra gli altri, uno dei “binomi” ancora insufficientemente armonizzati e coesistenti nel nostro Paese.

 

La lezione inaugurale del I ciclo, dal titolo “Identità e Nazione” si è svolta lunedì 29 novembre 2010 presso la Sala Gonfalone del Consiglio regionale della Toscana. Relatori: Alberto M. Banti (Università di Pisa), Simonetta Soldani (Università di Firenze – Società Italiana delle Storiche)

Domenica 20 marzo 2011 ore 10.30
Ricchezza e Povertà
Mala cosa nascer povero
Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo (A. Manzoni, I Promessi sposi)
Giovanni Gozzini (Università di Siena)
Natalia Faraoni (IRPET Toscana)
introduce Alessandra Pescarolo (IRPET Toscana – Società Italiana delle Storiche)

“Mala cosa nascer povero, caro il mio Renzo”. Così Perpetua a Renzo Tramaglino, in quello che, assieme alle Confessioni di un italiano, di Ippolito Nievo, va considerato il romanzo di formazione per la nuova Italia risorgimentale: I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. “Mala cosa nascer povero”: quasi un proverbio. E insieme, il sintomo eloquente di una secolare prassi di rassegnazione ad un destino ritenuto “naturale” e immodificabile, che dal canto loro le politiche economiche dei governi dell’Italia post-unitaria, ad onta di qualche sforzo significativo, e di qualche parziale successo, non seppero modificare. Soprattutto nei territori meridionali. La struttura sociale e la distribuzione del reddito, nei decenni che seguirono all’unificazione, spesso divaricarono, piuttosto che avvicinare, la forbice fra ricchi e poveri. E ancora negli ultimi venticinque anni, secondo i dati Lis-Oecd, l’Italia, con la Gran Bretagna, risulta il paese europeo dove il trend di diseguaglianza sociale è più marcato. Nel 2009, i poveri “ufficiali”, per l’Istat, sono quasi 8 milioni. Ma secondo altre ricerche, i soggetti a rischio arrivano a toccare i 15 milioni di unità, con una modesta incidenza
– 4%– delle misure di protezione sociale, che nelle altre regioni della Ue – Grecia esclusa – riescono a  “proteggere” fino al 50%. I più a rischio? I giovani. Come dire: non solo, ancora oggi, in Italia, è “mala cosa nascer povero”. Ma c’è anche chi, pur non nascendo povero, lo diventa.

Domenica 3 aprile 2011 ore 10.30
Chiesa e Laicità
Non possiamo non dirci laici

Perché non possiamo non dirci cristiani (B. Croce)
Senza laicità la democrazia è una scatola vuota (M. Martelli Italy, Vatican State)

Anna Scattigno (Società Italiana delle Storiche)
Annibale Zambarbieri (Università di Pavia)

L’Italia è, oggi, un Paese laico? Molti, tutt’ora, se lo chiedono, a fronte dell’indiscutibile influenza che la Chiesa cattolica continua ad esercitare sulla vita politica nazionale: al di là – si sostiene – del legittimamente rivendicato, e del resto ampiamente riconosciuto, diritto di magistero spirituale. Il venir meno, agli albori degli anni ‘90, di un partito di dichiarata ispirazione cristiana come la Dc, e la conseguente diaspora dei cattolici nei partiti della cosiddetta Seconda Repubblica, non pare aver risolto la questione, anzi. Una  questione che affonda le radici nel potere temporale dei Papi, e che, fin dai prodromi del processo unitario, si pone, per l’erigendo Stato Italiano, come snodo cruciale e vertenza ineludibile: dal cavouriano “libera Chiesa in libero Stato” ai “non possumus” e “non expedit” di Pio IX, dal vulnus di Porta Pia alle leggi Siccardi, dai Patti lateranensi del 1929 al nuovo Concordato Craxi-Casaroli del 1984. E’ una storia con tanti capitoli, fra luci ed ombre: il Partito Popolare di don Sturzo, la Dc di De Gasperi, i Comitati civici di Gedda, le ricorrenti polemiche sulle scuole e le case di cura “private”, il catto-comunismo, i referendum sul divorzio e sull’aborto, il nuovo “integrismo” di Comunione e Liberazione.
Fino al muro contro muro degli ultimi anni sul testamento biologico e l’eutanasia, sulla fecondazione assistitita e le unioni omosessuali, le pressioni e le concessioni sul e dal sistema dei partiti e delle lobbies politiche. La domanda, che non vuole ssere retorica, resta tuttavia legittima.
L’Italia, è, oggi, un Paese laico?

Domenica 17 aprile 2011 ore 10.30
Democrazia e Legalità
Uguale per tutti, forse

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge (Art. 3 Costituzione italiana)
Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri (G. Orwell, La Fattoria degli Animali)

Enzo Cheli (Gabinetto Viesseux, Firenze)
Piero Luigi Vigna (Magistrato)

Tutelare la legalità e difendere la democrazia. Due esigenze che paiono oggi coincidere, prefigurando uno stesso imperativo. La legge “uguale per tutti”. Nel senso che essa dovrebbe ignorare, e cancellare, di fronte a regole democraticamente condivise, posizioni di privilegio legate al potere economico, politico, militare. Insomma, la legge, nella sua proverbiale “maestà”, come ancella della democrazia. Il rapporto però non è sempre così lineare, né lo è stato nel secolo e mezzo di storia unitaria. La legge Pica “per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle province infette”, datata 1863, mirava ad esempio a colpire un fenomeno di evidente eversione dell’ordine pubblico. E tuttavia ebbe un carattere così autoritario da farla definire in Parlamento, da un non sospetto moderato come Ubaldino Peruzzi, “la negazione di ogni libertà politica”. E oggi? Ci sono, nel nostro ordinamento democratico, leggi che sanciscano o addirittuare istituiscano
disuguaglianze e privilegi? Legge e ordine, certo. Ma quale ordine? Qual è l’ordine “democratico”? Un punto
fermo, fra tanti interrogativi si impone. E questo non può che essere la Legge fondamentale della nostra democrazia, la Costituzione italiana del 1948, pietra di paragone e presidio di legalità democratica, anche contro la possibile non-democrazia della legalità ordinaria.

Domenica 8 maggio 2011 ore 10.30
Stato e Partecipazione
Non è stare sopra un albero

La libertà non è stare sopra un albero… libertà è partecipazione (G. Gaber – S.Luporini)
Fulvio Cammarano (Università di Bologna)
Franca Alacevich (Università di Firenze)

Lo Stato (democratico) come sistema di deleghe dal basso. Ma una volta delegato il potere (quella “sovranità” che, per espresso dettato costituzionale, “appartiene al popolo”), possono bastare a garantire la democrazia i meccanismi di controllo reciproco fra gli organi costituzionali, o quelli periodici di conferma o di ritiro della delega popolare (il voto)? La Storia, anche quella specificamente italiana post-unitaria, dimostra che, senza una qualche forma di partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica, la sclerosi degli istituti rappresentativi e la loro trasformazione in oligarchie autoreferenziali rappresenta un’involuzione quasi inevitabile, e così la trasformazione del voto in stanco rito di vidimazione per decisioni prese altrove. Certo si è che l’attuale crescita dell’astensionismo, e dunque il rifiuto del voto come strumento logorato e
deludente di democrazia delegata, in sè grave e allarmante, non sarebbe forse così grave e allarmante se non portasse con sé anche il rifiuto della politica tout court, il disimpegno dalla partecipazione democratica avvertita come peso e come legame, la fuga nel privato come albero sul quale arrampicarsi a difesa della propria supposta libertà personale. Senza riflettere che – come cantava Giorgio Gaber – “la libertà non è stare
sopra un albero…”
 

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